Renato Casaro: L’ultimo “pittore” del cinema

La magia del grande schermo immortalata dalla mano del fuoriclasse Renato Casaro

di FEDERICA GABRIELI

Entrava al cinema alle 14.00 e usciva alle 21.00 rivedendo più volte lo stesso spettacolo ma soprattutto attratto dai manifesti affissi sui muri, nelle strade, nelle piazze e negozi….

Renato Casaro nel suo studio

Un’immaginazione sconfinante e viaggiante nell’iperuranio della surrealtà con la sua creatività che lo ha sempre abbracciato sin dall’infanzia sebbene la sua umiltà e concretezza lo tengono ben radicato al pianeta terra. Autodidatta, appassionato e ossessionato dal disegno fin da piccolo. Nessuna scuola particolare bensì una predisposizione che ha saputo accogliere, abbracciare, liberare e che lo ha sempre accompagnato negli anni. Un’infanzia serena e una vita semplice di campagna che ricorda con gioia ed affetto.

Ci incontriamo a casa sua nella campagna trevigiana; Renato Casaro assieme alla moglie Gabriella mi hanno generosamente accolta per un paio d’ore ed io rimango colpita dal sorriso e dalla gentilezza di entrambi nel ricevermi.

“Sono nato il 26 ottobre 1939 a Treviso. Un’infanzia tipica della vita di campagna, sono nato e cresciuto qui in questa casa, una famiglia allargata insieme a zii, nonni e cugini, funzionava così ai miei tempi. Questa casa era più grande, più ampia, c’erano le stalle e nella parte sopra dove ho fatto il mio studio c’era il fienile tuttavia non ci mancava nulla ed era una vita serena, spensierata e ci divertivamo con qualsiasi cosa. All’età di due anni siamo andati in Africa a Bengasi per il lavoro di mio padre. Siamo poi rientrati in Veneto con la guerra quindi puoi ben immaginare che ricordi porto dentro di me. Ho sempre avuto la passione per il disegno, sebbene in famiglia nessuno era predisposto a quest’arte, tant’è che mio padre lavorava alla Breda Cantieri di Marghera e mia madre ha sempre fatto la casalinga anzi la contadina e ne vado fiero proprio perché mi garba sottolineare queste radici rurali e questo legame con madre natura perché mi ha insegnato molto”.

In più di 70 anni di attività, Casaro ha lavorato con i più grandi registi del cinema, da Jean-Jeacques Annaud a Jngmar Bergman, da Bernardo Bertolucci a Luc Besson, da Francis Ford Coppola a Sidney Lumet, da Sergio Leone a Giuseppe Tornatore, sino più recentemente a Quentin Tarantino.

“Ricordo che sia a casa ma anche a scuola disegnavo ovunque sui quaderni, sui libri, qualsiasi foglio mi capitasse fra le mani; tra l’altro i professori avevano compreso questa mia dote e mi incitavano nel perseguirla sebbene il sogno di mio padre era di portarmi come disegnatore nei cantieri navali Breda dove lavorava.
Sai ero un giovanotto con tanti sogni nel cassetto e il mio divertimento e attrazione più grande era il cinema, nulla a che vedere con bar, “cicchetti” o ritrovi mondani serali, trascorrevo i miei fine settimana al cinema tant’è che entravo alle 14.00 ed uscivo alle 21.00 guardando più volte lo stesso spettacolo. All’epoca si andava all’ Esperia, al mitico Garibaldi, all’Edera o al Comunale ma la cosa più divertente – sorride – è che ero estasiato ed incuriosito da quei manifesti affissi sulle strade, sulle pareti e vetrine, trascorrendo ore nell’osservarli. Tuttavia essendo solo un autodidatta non capivo la tecnica e non c’erano allora scuole che ti potevano insegnare quell’arte”.

Ci sono scuole cinematografiche?
“Ad oggi sono ancora rare e a quegli anni non c’era proprio niente. Frequentare l’Accademia può dare degli elementi base però ti distoglie da quello che è il tuo mondo, la tua visione insomma devi sconfinare perché devi saper fare tutto. Quindi bisogna essere eclettici, entrare “dentro” al film ed interpretarlo”. All’età dei 18 anni, terminate le scuole professionali andai a lavorare presso la ditta Zopelli, una importantissima tipografia di Treviso, nel reparto disegnatori perché già si sapeva della mia predisposizione al disegno e dove ho appreso i fondamentali della pubblicità commerciale, ho fatto calendari, etichette di vino e questo è stato molto utile nel darmi una formazione importante e basilare per sviluppare nel cinema poi la divisione degli spazi, la centralità dell’immagine e giocare sul foglio. Tant’è che un bel giorno passando davanti al Garibaldi conobbi il direttore che mi ha preso per fare i sagomati dei film in preannuncio, faceva le foto e le mandava abitudinariamente alla Lux; la fortuna ha voluto che mi hanno invitato a Roma perché desideravano conoscermi. Sai i miei passi sono sempre stati sanciti dalla fortuna e con il mio book e cartellina a tracolla partii per Roma in Treno. Andai alla Lux che visionò tutto il mio materiale e mi fecero ritornare dandomi il compito di realizzare il film: “Totò destinazione Piovarolo” , da lì iniziai a sognare. Nel contempo come apprendista lavoravo presso il celebre studio Augusto Favalli a Roma dove ci sono rimasto per un paio d’anni e questa esperienza mi “aprì” le porte nelle case più importanti di produzione e distribuzione film”.

I suoi genitori l’hanno sempre sostenuta nei suoi percorsi professionali?
“Assolutamente si, erano orgogliosi. Tra l’altro ricordo che quando iniziai a lavorare e sviluppare i primi manifesti li mandavo a casa a Treviso e mia madre li conservava addirittura mettendo la data”.

Il suo trampolino di lancio quando è avvenuto? Ovvero quando ha iniziato ad annusare profumo di successo?
“Non lo chiamerei successo bensì la fortuna di trovarmi in certe situazioni particolari come per esempio la casa cinematografica “Lavender Film” l’unica che importava film russi di grandi registi russi che mi conobbe e scelse per lavorare esclusivamente per loro e lì è iniziato il mio successo”.

La sua prima importante illustrazione che le è stata commissionata?
“Step by step…. Ad un certo punto, avevo ventidue anni, arriva il colpo di fortuna quando Dino De Laurentiis che allora aveva la “Dino Città” fuori Roma, uno stabilimento hollywoodiano, mi chiamò per il film la Bibbia, con l’attore John Huston.
Tant’è che il manifesto fu mandato a Los Angeles al Subset Boulevard, dove hanno pubblicizzato il film con il manifesto realizzato da me; una enorme soddisfazione e questo è stato il salto importante e poi Dino mi prese in simpatia e feci quasi tutti i suoi film. Lui poi si trasferì prima a Londra e poi a Los Angeles dove ha aperto la sua attività circondato sempre dalla professionalità e maestranze italiane, ed anche per me cominciò l’internazionalità”.

Una vita di grandi viaggi e lunghe trasferte professionali. C’è un posto, un luogo a cui si sente particolarmente legato?
“No, nonostante abbia fatto viaggi anche particolari tipo in Africa dove non c’era solo lavoro ma anche svago, divertimento e dove ho assaporato e assorbito interiormente varie culture e abitudini del luogo, vivendo sempre profondamente le situazioni e non superficialmente”.

Se dovessero commissionarle una illustrazione di un film con il titolo: “Il mondo di oggi” come se la immagina?
“Sai è un mondo un po’ particolare quello di oggi, non voglio essere pessimista, retorico e il solito vecchiotto romantico ma la verità è che io sento le persone e durante le mie mostre avvengono scambi di pensieri e percepisco un disagio generale. Ecco se dovessi fare un manifesto con il titolo “Il mondo di oggi” disegnerei un buco ovvero un vortice senza fondo, un vuoto, perché ogni giorno sento che le cose peggiorano e con questa intelligenza artificiale, sebbene non ha ancora messo bene le radici, non si comprende più cosa sia realtà e cosa immaginazione. Siamo in un momento di grandi trasformazioni, io vivo dei miei ricordi ma anche vedo quello che c’è fuori”.

Sono a sua firma manifesti che hanno cambiato la storia del cinema, come quello di Nikita ma anche C’era una volta in America, Il tè nel deserto, Balla coi lupi, L’ultimo imperatore, Rambo, 007 Mai dire mai, la mitica locandina di Lo chiamavano Trinità – realizzando tutti i film del duo Bud Spenser e Terence Hill – e tantissimi altri.

Quanti manifesti ha disegnato nella sua vita?
“Adesso con mia moglie Gabriella sto facendo una raccolta del mio percorso lavorativo avvenuto negli anni e siamo sui 2200 pezzi. Sarà la storia del cartellonismo cinematografico che percorre tutto un periodo fino a fine anni 2000 dove si è fermato”.

C’è un manifesto a cui si è particolarmente affezionato e che ricorda con affetto?
“Tutte le mie creazioni hanno una storia anche la più banale, ti posso dire di un piccolo film “Mamba” dove il manifesto è straordinario e supera le aspettative del film. Sai la mia capacità e la mia prerogativa è sempre stata quella di accettare anche lavori più piccoli e la mia sfida è sempre stata quella di fare un manifesto che superi il film”.

Un merito che si riconosce e che ha portato miglioramenti nel suo mestiere?
“La mia voglia di progredire ed è una pietra miliare del cambiamento nel manifesto cinematografico l’ho fatto io importando l’aerografo, conosciutissimo sin dall’Ottocento, con perfezionamenti negli anni tuttavia nessuno dei miei colleghi artisti lo adoperava ed io l’ho studiato per impiegarlo nel manifesto cinematografico e fui il primo. Fu un grande avvenimento perchè si riesce a fare sfumature, dare tridimensionalità e soprattutto creare magia nell’immagine e ti fa sognare come ad esempio “Nikita” per non parlare del “Tè del Deserto” capostipite del cartellonismo”.

Quanto tempo impiega nella realizzazione di un manifesto? Ovvero mi spieghi meglio le fasi da quando le viene commissionato un lavoro.
“Diciamo che l’esecuzione del materiale definitivo si svolge in sette, otto giorni dipende cosa c’è dentro tant’è che è la preparazione che risulta molto lunga perché devi vedere il film, devi recuperare il materiale che ti offrono ovvero foto di scena e molteplici problematiche a volte anche limitanti contrattualmente quindi ogni film ha il suo percorso e il suo tempo”.

Ha ancora un sogno nel cassetto?
“Viviamo di sogni, tutti i giorni sono sogni; in questi giorni e questo è un sogno che si è materializzato da poco ho fatto un accordo con la Salce e ora faccio parte di quella collezione che è importantissima a livello mondiale e ci sono come Renato Casaro tant’è che mi hanno dato al Museo Gaetano di Treviso una stanza all’ultimo piano per una mia mostra permanente. Questo è un sogno diventato realtà”.

Si può dire che ha disegnato per il cinema, ma anche la sua vita è stata un cinema…..
“Brava. Hai detto bene ed è per questo che non ho rimpianti -sorridono Renato e Gabriella-“.

Cosa ne pensa della tecnologia di oggi? Possiamo parlare di evoluzione o involuzione?
“Arrivare a una meta utilizzando metodi come il computer e il digitale non è altro che una strada semplice per arrivare al finale e che non è sempre un finale di estrema qualità. Se invece il disegno è realizzato con le proprie mani bisogna impegnarsi con un percorso di preparazione e di studi”.

Un consiglio che darebbe ai giovani di oggi.
“I giovani non li comprendo – sorride – e se dovessi dare loro un consiglio direi di mettere più una loro interpretazione e creatività per rendere unica l’idea e il risultato finale”.

Un artista che sapeva è sa trasportare l’anima di un film in un manifesto il tutto mentre il film era ancora in lavorazione potendo contare solo su qualche fotografia e un formidabile intuitivo. Non c’è mai stato un film dove ha trovato più difficoltà rispetto ad altri nel rappresentarlo?
“Come ti raccontavo tutti sono diversi, hanno tante problematiche e tecniche da seguire. Ti posso dire portando come esempio il “Tè nel deserto” che aveva delle clausole contrattuali ferree, difficilissime e che mi ha impegnato a trovare strade diverse arrivando alla conclusione di un’immagine che non c’è nel film ed è emblematica”.

Nelle sue creazioni deve avere l’approvazione di Gabriella?
“Assolutamente si. Nel mio animo c’è una convinzione e lo dico con estrema sincerità: io lavoro per lei e desidero che sia la prima che veda le mie creazioni e devono piacerle. Lei è sempre stata al mio fianco sia nel percorso professionale che nella quotidianità, è fondamentale per me e avere un riferimento come lei è uno stimolo continuo. Si dice che per essere un grande uomo bisogna avere una grande donna al proprio fianco e così è stato con Gabriella, quarant’anni assieme. “Mi sembra siamo nati l’un per l’altro – conclude Gabriella -“.

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