Rinascita di un Mito: Alessandro Fassina e il rilancio di Isotta Fraschini

di R.A.

Lo sguardo, il portamento, la parlata e la sicurezza che trasmette sono i sintomi di una persona di successo. Alessandro Fassina, assieme al padre Tony e al fratello Ado, è amministratore delegato del Gruppo Fassina, che è uno dei colossi italiani nel campo della distribuzione automobilistica forte di ben 14 marchi tra cui Bentley e McLaren con l’esclusiva per tutto lo Stivale, ma è anche amministratore delegato di Autopolar che è un fiore all’occhiello del nostro territorio.

Basta così? Macché.
Da due anni è anche presidente di Isotta Fraschini rinata dalle ceneri dopo 70 anni di letargo e di oblio. Ai più giovani Isotta Fraschini potrebbe dire poco, ma si tratta del brand più prestigioso nel mondo fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Nata il 27 gennaio del 1900 a Milano, l’Isotta Fraschini si è subito posta all’attenzione internazionale per i suoi grandi risultati sportivi, i record di velocità e le sue innovazioni tecniche. Vittorie prestigiose alla Coppa Florio, alla Targa Florio, in tutta Europa e negli Stati Uniti nelle mani di grandi campioni quali Trucco, Minoia, Alfieri Maserati e persino Enzo Ferrari per citarne soltanto alcuni. E poi vetture stradali così lussuose che comperarne una costava l’equivalente di 7 Roll Royce. Le volevano tutti i potenti del mondo, dai re ai maraja, da papa Pio XI al duce Benito Mussolini, da Italo Balbo a Henry Ford e Walter Chrysler, e poi i mostri della cultura del tempo come Gabriele D’annunzio (che ne possedette ben due) a Giacomo Puccini, e le star del cinema a stelle strisce con in testa il leggendario Rodolfo Valentino, due anche per lui. Infine Filippo Marinetti che ne comperò una e ci percorse appena due chilometri appena uscito dalla fabbrica prima di finire con l’auto in un canale senza troppi danni personali. Un’esperienza che giudicò indimenticabile al punto da prendere lo spunto per dare vita al Futurismo, il movimento letterario, culturale, artistico e musicale che diventò una delle prime avanguardie europee.

Di ridare vita a una marca così fiabesca, ma da tanti anni fuori dalle scene, come le è venuto in mente?
«In realtà non è venuto in mente a me. L’idea del rilancio di Isotta Fraschini non è mia, ma ci sono salito a bordo poco più di due anni fa, avvicinato da altri investitori che da tempo si erano tuffati nella trattativa di acquisizione del brand. Sono stato coinvolto e con piacere ho fatto delle veloci riflessioni fiutando quello che poteva essere lo sviluppo di un progetto così ambizioso, e ora sono qui che vivo assiduamente l’evolvere degli avvenimenti.»

Coraggio o incoscienza?
«Né l’uno né l’altra. È stata la voglia di uscire dalla mia “comfort zone”. Mi spiego meglio: mi ritengo una persona molto impegnata ancor prima di iniziare questa avventura, ma su cose molto tradizionali e per me di routine. Lo stimolo è stato quello di andarmi ad interessare di argomenti completamente nuovi, come la parte industriale della macchina insieme ad altre valutazioni legate al progetto; questo è stato molto stimolante e mi ha attratto enormemente.»

Qual è stata la molla che ha fatto scattare la decisione?
« Qui è praticamente tutto Made in Italy, telaio, freni, sospensioni e soprattutto il “cuore”, cioè il motore. Insomma, è tutto di Isotta Fraschini compresa la proprietà “intellettuale” dell’intero prodotto. Era troppo entusiasmante far parte di quel gruppetto di visionari che si sarebbe preso la briga di far rinascere questa casa automobilistica che risulta a pieno titolo nell’Olimpo dei grandi brand mondiali di tutti i tempi.»

Oggi si può già parlare di realtà piuttosto che di un sogno. Avete dato vita a una vettura da competizione e anche a una versione stradale molto estrema. Perché siete partiti dalle corse?
«È stato un percorso quali obbligato. Riportare in vita un marchio dal grandissimo blasone, che però era finito nel dimenticatoio per sette decenni, è un’operazione molto complessa e tale da richiedere uno sforzo economico esagerato usando come unico canale la promozione e la pubblicità in tutte le sue declinazioni. A suo modo, per quanto con costi comunque molto alti, lo sport è stato giudicato come la migliore scorciatoia per attirare l’attenzione. Esattamente quello che accadde alle origini con la stessa Isotta Fraschini, ma anche la strada percorsa agli inizi dalla Ferrari. Ovviamente per avere un ritorno importante bisognava gareggiare al più alto livello e contro i migliori costruttori, soprattutto quelli dei brand più lussuosi. È stato scelto allora il mondiale Endurance dove ci si doveva confrontare con colossi agguerriti come Ferrari, Porsche, Cadillac, Bmw, Lamborghini, Alpine e Toyota nelle gare più difficili e più lunghe, là dove la velocità si deve combinare con l’affidabilità. È stata davvero una sfida da far tremare i polsi.»

È stato un inizio al top. Possiamo parlare di emozione?
« Ovviamente sì. Anche se Isotta Fraschini è partita per partecipare all’intero Campionato del Mondo Endurance, la 24 Ore di Le Mans è la gara più importante della stagione, la più iconica, la più ricca di storia al mondo e prendervi parte è stato fantastico. Quest’anno in particolare la lotta al vertice nella categoria Hypercar, quella di vertice e quella della nostra vettura, è stata molto serrata sul piano delle performance e ha visto la presenza di 23 auto al via peraltro annegata in un lotto complessivo di ben 63 vetture e tutte di case ufficiali, un fatto mai accaduto in un secolo di corse su quel tracciato, il che ha reso la gara ancora più combattuta, con un equilibrio incredibile nella lotta per le prime posizioni. Noi abbiamo fatto tutto il possibile con i mezzi a disposizione e devo riconoscere anche a Giuliano Michelotto e alla sua struttura il merito di aver fatto un gran lavoro. Terminare, e farlo al quattordicesimo posto assoluto, la nostra prima 24 Ore di Le Mans, in un contesto così combattuto poi come quello di quest’anno, con le difficoltà atmosferiche, le quattro ore di Safety Car e le ultime ore corse con la pista umida o bagnata è stato un risultato molto appagante.»

Ma in programma non ci sono soltanto vetture da competizione…
«Certo che no. Anche se le prime versioni sono state tutte derivate dalla vettura da corsa. Presto consegneremo la prima vettura per i track days, cioè una versione clienti per quelli che vogliono un’auto di alte prestazione per andare a divertirsi in pista. Ma abbiamo già messo per strada il primo modello di una versione assolutamente estrema che verrà costruita su misura del cliente, praticamente un’auto fatta a mano come un orologio di gran lusso, ma capace di oltre 1000 cavalli per un peso di meno di 1000 chili…»

La sfida dei prossimi mesi quale sarà?
«Sarà quella di riuscire a trasmettere ai nostri potenziali clienti il perché Isotta Fraschini è diversa dalle altre Hypercar, mostrando loro quanto sarà veloce in pista e quanto lo sarà altrettanto in strada. E per veloce non intendo solo prestazionale nell’accelerazione bruciante, ma anche in frenata e in curva, regalando ai suoi possessori emozioni capaci di coinvolgere a 360 gradi chi starà seduto al volante della nostra auto. Noi proponiamo una vettura che sarà assolutamente prestazionale e simile alle macchine da gara. Concentrandoci più sull’essenza e non su quegli optional che su una vettura “Race” risulterebbero distrazioni. A noi interessano potenza e leggerezza che vanno in contrasto con tutto quello che si può definire superfluo.»

Riprenderete lo spirito delle leggendarie vetture del vostro grande passato?
«Sono consapevole dell’importanza del marchio e del fatto che il brand sia importantissimo. Però io tenderei a dimenticarmi del passato, anche perché quello non dipende da noi, meglio concentrarci sul futuro perché c’è tanta strada da fare.»

Con che fine?
« Vogliamo dimostrare che gli italiani sanno costruire auto e lo sanno fare meglio.»

Lei, che è stato anche campione del mondo nei rally, l’ha provata?
«Le assicuro che le emozioni che si possono provare mettendosi alla guida di un bolide così non hanno riscontri in altre vetture stradali, ed era proprio il traguardo che volevamo raggiungere.»