Il batterista degli Estra racconta la sua storia ricca di sorprese
di UBALDO SAINI
Il mestiere di giornalista è sempre più ingrato, specie negli ultimi tempi. Spesso questa categoria viene apostrofata con epiteti poco lusinghieri, bisogna difendersi da attacchi gratuiti e si viene trattati come un fastidio necessario, con cui se si potesse non si avrebbe a che fare. Per fortuna grazie a Qui Treviso c’è la possibilità di intervistare persone speciali come Accio Ghedin, una di quelle persone che ti
accoglie a casa propria con un largo sorriso. Il magnifico contrabbasso che si trova nell’ingresso è solo l’antipasto per capire la passione per la musica di questo artista poliedrico. Soggiorno e cucina, fuse sapientemente in un ambiente unico, ospitano strumenti musicali e perfette opere artigianali, come il tavolo da pranzo recuperato da un vecchio portone. L’intervista si trasforma ben presto in una piacevole chiacchierata, tra una tazza di caffè e un biscotto preparato dai ragazzi del centro di recupero dove Accio lavora. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla prima fondamentale domanda, quella che un po’ tutti si staranno facendo leggendo questo curioso soprannome.
Qual è l’origine di “Accio”?
“E’ una storia molto intensa, ed è legata a mio zio, il fratello di mamma. Il suo cognome era Galiazzo, ma uno dei suoi professori aveva dei problemi di pronuncia e lo chiamava “Galiaccio”. Avevo un legame affettivo molto profondo con mio zio, che era una sorta di Bud Spencer per me e aveva partecipato anche a missioni importanti, tipo quando durante la guerra fredda rimase immerso per un mese all’interno del sommergibile Nautilus nel lago di Caldonazzo. E poi era un appassionato di rugby: fin da quando avevo sei anni mi portava gli allenamenti e lì ero diventato il “nipote di Accio”. Il soprannome è rimasto e ne sono molto orgoglioso perché il rapporto con mio zio era davvero speciale. Mi portava sempre dei regali dai suoi viaggi in giro per il mondo e mi ha trasmesso la passione per i viaggi.”
Una passione che ha ben presto fatto il paio con quella per la musica…
“Mio papà era un musicista classico-bandistico, e fin da quando ero piccolo ho fatto le mie prime esperienze nel mondo della musica. Mi piaceva la batteria, mentre papà avrebbe preferito che mi dedicassi agli strumenti a fiato, come la tromba o il trombone. Poi dovetti mettere l’apparecchio per un lungo periodo e la scelta ricadde in maniera naturale sulla batteria. Fin da giovane, poi, ho avuto la possibilità di viaggiare l’Europa con la banda musicale cittadina di Treviso, grazie al sostegno della Fondazione Cassamarca e di Dino De Poli.”
Com’era l’Europa degli anni Ottanta?
“Completamente diversa da oggi, soprattutto per la potenza che era l’Italia. Con poche lire potevamo fare una vita da nababbi. Paradossalmente questo ci ha creato delle situazioni surreali, specie durante i viaggi in Russia, che all’epoca viveva di contrasti. C’erano persone che vivevano in condizioni di estrema povertà e dei ricchi che esibivano i loro possedimenti. Il caviale, da noi merce pregiata, veniva scambiato per un paio di calzini da chi non poteva permetterseli. Una sera pagammo un tassista dieci dollari per portarci in hotel. Era sera, attorno alle dieci, e dopo un’ora non eravamo ancora arrivati. Stavamo cominciando a preoccuparci, poi lui ci spiegò che con tutti i soldi che gli avevamo dato si sentiva in obbligo di farci fare un giro più lungo per farci vedere l’alzata dei ponti illuminati a mezzanotte.”
La svolta arriva tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta…
“Con le percussioni ci sapevo fare, o almeno così dicevano. Nel 1989 mi chiama Andrea Sales, figlio del “Barone” Riccardo Sales (storico allenatore di basket, ndr) per fare un provino. Da quel momento entro nel giro dei cantautori veneti: ho collaborato con tutti i più importanti, da Barbarotta a Boschiero, da Cantone a Miglioranza.”
Nel 1991 assieme a Eddy Bassan, Giulio Casale e Alberto “Abe” Salvadori fonda gli Estra, che ancora oggi sono in attività.
“Un gruppo di ragazzi che per me sono come fratelli. Ne abbiamo fatte e viste tante assieme. Il momento più bello rimane quando abbiamo fatto da gruppo spalla ai Cure, assieme ai Marlene Kuntz e ai Cornershop: era il 1998, sul lago di Como. Indimenticabile. E siamo ancora belli attivi: l’anno scorso abbiamo lanciato un crowdfunding per incidere un nuovo disco. L’obbiettivo era raccogliere 20.000 euro, e in 72 ore eravamo già oltre la metà. Alla fine i nostri fans e sostenitori ci hanno sommerso di affetto e donazioni e siamo arrivati a 33.000 euro. Così è nato “Gli anni venti”, un disco di denuncia del quale vado molto orgoglioso.”
Qual è stato un momento indimenticabile dal punto di vista personale?
“Nel 2004 ho avuto l’onore e il piacere di suonare al Festivalbar con Francesco Renga. Era il 2004 e lui portava in tour la bellissima “Ci sarai”. E il bello è che non dovevo nemmeno farla io! Mi chiamò un amico bassista e mi chiese se avevo da fare perché c’era da suonare al Festivalbar a Lignano. Mi avevano assegnato a Raiz, l’ex frontman degli Almamegretta, poi la produzione cambiò idea e mi abbinarono a Renga. Preparai il pezzo in men che non si dica e andò bene (sorride, ndr). La cosa incredibile è che c’è tantissimo playback, anche a livello di coreografie. Gli show non erano in diretta, venivano registrati in più serate e montati ad hoc dai registi.”
Oltre a suonare, è anche un insegnante di musica.
“Insegno tutti i pomeriggi. Cerco di trasmettere qualcosa ai ragazzi. Non si tratta di insegnare, quanto piuttosto di educare. Questa è una generazione che ha poca curiosità e non solo in fatto di musica, ma anche di cibo, di socializzazione. Mi sento in obbligo di educarli, non posso stare in silenzio. Prendiamo ad esempio i Led Zeppelin: sono dei veri miti della musica, ma molti giovani non sanno neanche chi siano e non ne hanno mai sentito parlare. Il loro, e non solo, è un patrimonio artistico che rischia di andare perso se non se ne parla e non se ne coltiva la memoria.”
E a proposito di mille vite, di notte Accio lavora in una comunità a Conegliano…
“Un lavoro tosto, difficile, mai banale o noioso. Un’esperienza unica, che mi fa venire in contatto con storie forti di ragazzi e ragazze con problemi di tossicodipendenza. Pochi ne escono completamente. La musica è un modo per tenerli lontani dai guai. Con me ha funzionato, alla pari del rugby.”
Viaggi, palla ovale, musica. Tre passioni che aprono la mente.
“Sono sempre stato un curioso. Quando ero piccolo e mi capitava tra le mani un disco, leggevo tutto, dai nomi dei membri della band ai produttori. Oggi c’è meno curiosità di esplorare a fondo le cose o di crearne di nuove. Prendiamo ad esempio le cover o le tribute band: per carità. E’ un’operazione culturale all’opposto, un tentativo di copiare l’originale che spesso si trasforma in un pastrocchio. Ho sempre fatto musica mia e ne vado fiero. E l’ho portata in giro per il mondo. Il concerto più grande dove ho suonato è stato quello del Primo Maggio a Roma negli anni Novanta. C’erano 600.000 persone, una folla oceanica. Quella volta riportammo pure gli Skunk Anansie in hotel. E sì, Skin è una vera belva, ha una voce pazzesca.”