Lasciarci cullare dall’assenza del tempo…
da uno stare e fluttuare nel tempo…
da un rubare il tempo…
Ed è proprio la straordinaria magia della musica che con semplicità e naturalezza partendo dal nostro cuore avvolgendo e abbracciando le corde dell’anima ha il potere di emozionare, accompagnare, travolgere e stravolgere, trascendere ed ispirare la gente al di là del tempo.
Il suo potere di trasformazione ha del miracoloso, ribaltando il nostro stato d’animo nel giro di qualche secondo, portandoci dall’infelicità alla gioia, dando ali al nostro pensiero con uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza e vita a tutte le cose.
Essa è composizione, una unione armonica di note e silenzi, di anime che esprimono e cuori che ricevono ed accolgono; una ricomposizione di frammenti che anelano all’unità.
Un mondo quello di Mauro Gatto, vibrante, gaudente, accogliente, con una dirompenza colorata di note e profumi balcanici, etnici, africani, una forza tribale del mondo popolare.
A che età hai iniziato a suonare?
“Ho preso in mano la batteria all’età di cinque anni, ancora prima di iniziare la scuola.
Mio padre suonava la tromba e aveva un gruppo con cui si divertiva molto; il nostro garage era diventato una sala di prova.
Ma grazie al batterista che lasciava nella nostra casa il proprio strumento mi veniva facile battere; suonavo ancor prima di saper leggere e scrivere ed in mezzo a questa vera, semplice, naturale atmosfera mi istruivo quasi in autonomia dalla mazurca, alla polca, al tango.
Le prove erano sempre delle grandi e travolgenti feste anche per il vicinato che senza timore e vergogna si aggregava canticchiando e ballando; c’era chi portava la bottiglia, chi la soppressa insomma non ci mancava niente.
Ci si metteva fuori nel cortile e si apriva il sipario ossia il nostro sipario fatto di tradizioni, risate, convivialità e condivisione. Da lì ho continuato e soprattutto capito che la batteria era il mio primo amore ed è rimasta tale negli anni.
Nel 79’ ho iniziato a prendere lezioni serie con il maestro Eddy De Fanti, un notevole percussionista del Teatro La Fenice di Venezia, che veniva da Mestre a Montebelluna per la prima classe in assoluto di batteria, presso l’Istituto Musicale Malipiero.
Pensa che eravamo solo tre bambini che si apprestavano al corso di batteria; ricordo con un sorriso ed una filigrana di malinconia quando il maestro dopo svariati chilometri d’asfalto arrivava con la sua Giulietta verde piena di strumenti e quando apriva il bagagliaio dell’auto esplodevano da tutte le parti, cosa che non farebbe più nessuno ad oggi. A metà degli anni 80’ ho iniziato a suonare presso alcuni locali del paese sebbene il mio vero slancio l’ho avuto nell’85 con il mio primo gruppo metal; suonavamo tantissimo e la cosa divertente è che si andava in un bar e ci si esibiva senza burocratici accordi, contratti o diavolerie del genere, era tutto molto veloce e snello.
Ho continuato poi con la Big Jazz di Noale a fare le mie prime esperienze anche se il jazz non è mai stato il mio genere preferito.
Ho appreso varie direzioni musicali negli anni, difatti nell’89’ sono entrato in una orchestra di liscio e ci ho lavorato fino al 95 arrivando anche a sostenere duecentottanta eventi all’anno, un miscuglio di musica tra valzer, latino americano, liscio e toccando anche il moderno; periodi meravigliosi ma molto impegnativi e faticosi da sostenere a lungo viaggiando in lungo e largo tutta l’Italia e non solo”.
Quando è giunta la vera svolta e il tuo amore e riconoscenza verso la percussione?
“Nel settembre del ‘97 mi chiesero di entrare in un gruppo chiamato “Barbapedana” dove si suonava musica balcanica, musica klezmer ovvero degli ebrei e musica zingara. Ero completamente ignorante in quei generi, andai a fare questa prova e da lì è iniziato il mio vero, autentico e travolgente percorso da percussionista, tant’è che dopo ventisei anni suono ancora con questo gruppo, incidendo sei dischi accompagnati da varie tournée nel mondo: Spagna, Grecia e Capo Verde”.
La musica e soprattutto i vari generi a cui ti sei praticato negli anni hanno inciso molto sulla tua persona?
“Si ho subìto un cambiamento interno molto importante perché con la musica balcanica hai una ricchezza delle tradizioni, un eccesso della musica, della loro mentalità, usi e pensieri; è una crescita alla pari, uno scambio, un interscambio meraviglioso, incontrando alquanti e svariati musicisti.
Vedi, nella musica balcanica si usano molteplici percussioni, dalla Buca strumento a calice, alla Grancassa ovvero la Davul o Tapan ma poi qualsiasi cosa ti arriva tra le mani inizi a suonarla, dalla caffettiera, ai cucchiai, alla gomma dell’auto, violini di zucca, contrabassi ricavati dai mobili….
Questo viaggiare nello scoprire la musica balcanica, orientale, etnica, africana e le loro sfumature mi ha permesso, facendomi penetrare, cullare e avvolgere, di comprendere che nella percussione c’è un “peso” che non è solo musicale ma culturale”.
Hai incontrato maestri importanti nella Tua carriera?
“Dopo il conseguimento del diploma di geometra e soprattutto avendo avuto la fortuna di ricambiare ritmo di vita e di vagabondaggio musicale, sono ritornato a scuola iscrivendomi all’Accademia di Musica Moderna a Milano con un grandissimo maestro ovvero Marco Volpe, un batterista jazz.
Lui mi ha insegnato in che modo si usa la batteria ovvero il modo di approcciarsi allo strumento, mi ha istruito nella parola della musica, come si suona che è diverso da suonare, con la consapevolezza che non ci sono regole se non il proprio sentire.
E’ stato un percorso che mi ha aperto un mondo, nel come si suona, una dimensione e una profondità dove regna sovrano il gioco ed intrecci tra ragione, istinto e creatività, una sorta di imparare una cosa e dimenticala. Le cose migliori della musica non stanno nelle note ma nelle pause, nei silenzi, nei respiri.
Negli anni a seguire ho avuto altri maestri e sono andato anche all’estero per istruirmi infatti il mio grande mentore Chuck Silverman era un appassionato di musica latina intrecciando ritmi quali il Songo, il Mambo, Samba e soprattutto il suo modo alternativo, intelligente e creativo di utilizzare questi ritmi per un approccio più funzionale allo studio dello strumento batteria ed è proprio quello che a me interessava. Lui è stato un personaggio incredibile di Los Angeles che andava oltre il musicista, era una persona vera, di quelle che ti entrano per la loro semplicità e simpatia, ma che nascondono profondità di pensiero, di quelle che si godono la vita, che la esaltano e che ti rendono partecipe anche solo con una battuta o un sorriso. Con lui sono rimasto in contatto per molti anni, organizzando anche delle Master in zona Treviso che hanno riscosso un grande successo.
Dall’Accademia all’incontro con Silverman, essendo un curiosone, ho contemporaneamente ripreso a fare rock; si facevano bei concerti e da quella esperienza sono andato a suonare con l’orchestra di Vicenza con il maestro Fracasso, esibendomi in variopinti spettacoli anche un con un tributo ai Queen.
Nel frattempo nel 98 ho formato un mio gruppo che si chiamava “Manodopera”, era una musica folk rock, incidendo tre dischi con vari generi, dalla balcanica, latina, italiana e musica scritta da noi”.
Oltre alla musica, hai altri hobby?
“Insegno dal 93’ in varie scuole private in Veneto, perché non ho mai acquisito diplomi che mi permettessero di insegnare in scuole pubbliche e sinceramente non mi interessano quest’ultime proprio perché c’è una rigidità nel seguire un copione che non si addice al mio intendere la musica.
Ad oggi ho una decina di allievi a settimana, insegnando principalmente batteria però anche percussione, sebbene quest’ultima è molto difficile da far capire proprio perchè la batteria è uno strumento immediato con un suo fascino, mentre le percussioni possono essere vari strumenti ovvero qualsiasi cosa può diventare una percussione regalandoci la possibilità di usare tanti colori ovvero suoni.
Un percussionista ha un cambio di strumenti indefinito ed il suo mondo è gigantesco perché è popolare, proprio perché ogni popolo ha le proprie percussioni, il proprio modo di suonare e il proprio linguaggio, ovvero ogni tribù ha il suo ritmo, legate alle proprie tradizioni e fatti della vita quotidiana”.
Come vedi i giovani d’oggi e il loro rapporto con la musica?
“I miei allievi ad esempio sono dei ragazzi splendidi, hanno una gran voglia di mettersi in gioco ed imparare con un ventaglio che tocca tutte le età ovvero dai sei anni ai settantadue, questa è una dimostrazione tangibile che la passione trascina ed è trascinante e sconfinante andando oltre l’età scolastica.
Lascio molta libertà di apprendimento, dando una infarinatura di base e nel momento in cui i miei alunni sanno fare un ritmo, metto una musica e li lascio andare, cosicché quando la persona si è appassionata può continuare una istruzione dove la tecnica non pesa più.
Sicuramente i ragazzi di adesso rispetto ai miei tempi sono più preparati perché il livello tecnico si è alzato moltissimo, difatti ci sono sedicenni che suonano notevolmente ma nel contempo però noto che molti suonano solo tecnicamente e si divertono poco, altri ancora che sono meno studiati e si divertono moltissimo.
Questo iper tecnicismo che è uscito negli ultimi vent’anni, categorizza molto anche i bambini e la loro espressività.
Credo sia importante dare a questi ragazzi una visione più ampia, facendogli capire si di seguire i loro idoli ma che è fondamentale metterci del proprio, finchè si impara da una persona va bene ma fondamentale è apprendere da quell’idolo e poi proseguire con la propria testa”.
Come ti definisci?
“Sono musicista nel suo più ampio raggio, percussionista, chitarrista, pianista, compositore, insegnante. Altresì non riesco a darmi una connotazione precisa, anzi potrei dire che sono un MUSICANTE, la mia curiosità mi porta ad una evoluzione e mutamenti continui.
Il mondo è talmente grande che non puoi fermarti; ogni qualvolta mi commissionano cose diverse, mi appassiono e vivo di emozioni nuove.
Tra l’altro collaboro anche da dieci anni con una ballerina dappoiché non puoi slegare la musica dalla danza, soprattutto nella musica popolare, imparando così a lavorare con ballerini e comprendendo che il ballo e la musica sono due mondi attaccati sebbene la società li ha slegati”.
Come consideri i testi delle canzoni di oggi?
“C’è quella parte più commerciale che sfrutta un linguaggio poco delicato e dissonante, e con la volgarità diventi famosa tra i ragazzi, sebbene è una chiave di distruzione che in questo momento storico così diverso dai miei tempi, lo è ancora di più.
Vengono usate le parole un po’ a caso parlando di cultura suburbana, che forse c’è ma la maggior parte di questi testi sono fatti perchè devono entrare nei ragazzi e sono pensati per dare più senso di ribellione quando in realtà non la danno. Esistono tuttavia dei rapper italiani che hanno testi molto interessanti; se noi andiamo indietro con il tempo c’era un grande rapper Frankie hi-nrg mc, difatti lui ha fatto testi meravigliosi anche contro la mafia, sul modo di essere ben pensante e di non accettare per forza i pensieri altrui.
Quelli che hanno qualcosa da dire fanno sempre più fatica perché se c’è qualcosa da far pensare si ha più difficoltà; è più semplice usare termini poco convenienti perché prima compiaciuti dal popolo.
Credo tuttavia che il problema fondamentale è che tutto è già stato fatto e già stato detto. Fino agli anni novanta in una società che si stava evolvendo e dove la parola diventava una sorta di sparti acque, qualcosa che rompeva lo schema, era più semplice e doveroso fare canzoni invece ad oggi la parola rientra nello schema che non è di rottura bensì di appiattimento perché la usano tutti, notando una ricorrenza di testi dove il disagio regna.
A me è piaciuto molto il testo di un ragazzo giovane, un rapper di nome Ghali, in cui parla della situazione attuale ovvero le guerre, mandando un messaggio nel testo che dà il senso di quello che sta vivendo ora la società.
La cosa però che mi preoccupa di più non è il fatto che non ci siano bravi cantanti, quanto che mancano le canzoni; ci manca coltivare quest’ultime per non finire di scrivere le stesse cose”.
Rivolgendoti ai giovani che si approcciano allo studio di uno strumento, che consigli daresti?
“Quello di ascoltare molto e di divertirsi moltissimo perché la tecnica è una ripetizione, la musica invece inizia dal cuore, che va istruito ad accogliere le emozioni e sensazioni, qualsiasi genere esse appartengano”.
di Federica Gabrieli